di Luca Lovisetto
foto Natascia Mariano
Buondì.
Mi videochiami o facciamo intervista scritta?
Scritta, anche perché sono in biblioteca!
Ok, allora io metto su l’ultimo disco di Havah.
Durante un assedio?
Yep.
A me piace un sacco Settimana. L’ultimo non l’ho ascoltato.
Settimana super disco! Durante un assedio lo sto ascoltando in questi giorni, mi sembra più elettronico e un po’ più complesso come concetto (settimana era di una semplicità comunicativa devastante), ma sempre gran musica.
Li ho visti anche live a Bologna un paio di anni fa, iniziai ad ascoltarli dopo quella data: dal vivo sono veramente emozionanti.
Immagino… Mi piacerebbe molto vederli da qualche parte.
Comunque, tornando a noi: cominciamo. Com’è successo che il bassista dei Mellow Mood sia diventato The Sleeping Tree? Ovvero: so che è un progetto solista che porti avanti da qualche anno, e questo se non sbaglio è il terzo disco. Se ti va, riassumi un attimo la tua storia.
Allora. Io penso che i due percorsi siano stati contemporanei e paralleli da sempre, più o meno quando ho iniziato a suonare con i Mellow ho iniziato a scrivere canzoni che sapevo non sarebbero state “utili” per un progetto reggae. Quindi ho deciso di raccoglierle in un progetto molto personale, intimo, nato all’inizio su myspace – insomma, nel 2007 myspace spaccava tutto. Lì mi ha sentito Sven Swift di 12rec.net (che adesso gestisce l’etichetta Error Broadcast) che mi ha chiesto se avessi voglia di mettere una dozzina di tracce in un album in free download. Così è nato Leaves and Roots. Tanti download, bei commenti, ma tra lavoro coi Mellow e università non sono riuscito a dare continuità a The Sleeping Tree, nemmeno quando un paio di anni dopo ho lanciato come un sasso sul greto cibernetico Stories, un Ep che all’inizio era stato “commissionato” da un’etichetta genovese poi mai nata. E poi insomma, ho iniziato a suonare sempre più spesso, mettendomi in gioco sui live. E sono arrivato a Tempesta e Painless.
Effettivamente ho visto che hai suonato veramente un sacco ultimamente. Il nome “Sleeping Tree” l’ho letto la prima volta quando hai suonato a Thiene con le Altre di B, che sono un gruppo di Bologna con cui sono molto amico. Dopo qualche giorno, mi pare, hai aperto ai Tre Allegri all’Estragon. Francesco Locane, che se non vado errato ti ha intervistato prima di quel live alla radio, ha scritto una frase che mi è rimasta impressa riguardo a Painless: «Con la musica di Sleeping Tree, la serendipità è in agguato», dove per serendipità si intende (cito testualmente wikipedia) “la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra”. Io l’ho interpretata in due modi: è un disco che ti stupisce e affascina per la sua omogenea bellezza, d’altro canto l’estetica folk imporrebbe una certa melanconia e grigiore di fondo che – nel tuo caso – ha un approccio molto più solare, in generale.
Beh che dire, grazie! A me l’approccio solare, o energico, piace molto in ogni cosa. È per questo che mi sono innamorato del reggae, ho ascoltato un sacco di HC, ecc ecc, perché sono accomunati da un atteggiamento propositivo. Invece spesso nel cantautorato (anche quello molto bello) manca quel colpo di reni che a mio parere fa bella la vita.
La cover di Smith era già presente nella compilation del decennale della morte insieme a quelle di Raina, Threelakes, ecc. L’avevo sentita questo autunno e non ti conoscevo (o meglio, anche ora non ti conosco, ma conosco la tua musica), ma mi ricordo di aver pensato che era davvero appropriata e forse tra le più riuscite del progetto. La scelta di inserire il brano in questo disco? Trovo che sia una bellissima linea guida, anche a livello filologico. A tal proposito, ancora: i tuoi ascolti, che mi paiono davvero variegati, come ti hanno formato e come hanno plasmato le sonorità che ascoltiamo in Sleeping Tree?
Going Nowhere è finita in Painless per una serie abbastanza lunga di motivi, in primis il fatto che ci è piaciuta particolarmente, è una bella canzone ed è venuta bene davvero. Eravamo a metà della lavorazione di Painless quando abbiamo registrato la cover, e abbiamo rifatto tutto il resto tenendo quella come paragone qualitativo! E poi ci sono le motivazioni “morali”: è giusto affacciarsi su una scena esplicitando le proprie radici; sapevamo che Going Nowhere sarebbe stata anche un buon motivo per un interesse mediatico, alla fine è un buon confronto che salta sempre fuori, e che mi onora.
Per quanto riguarda gli ascolti invece, ho ascoltato tante cose diverse in vita mia – dai Gang Starr agli Anathema. Sono utili anche i confronti “di scarto”: ascolti cose dalle quali sai volerti distaccare. La grande soddisfazione di Painless è stata però riuscire ad omogeneizzare le mie influenze, in modo che si riesca ad intuire una complessità di ascolti senza che siano identificabili singolarmente. O almeno, questo è quello che volevo fare.
Devo ammetterlo, Sweets of Helsinki è tra le top 3 (se non la mia preferita) del disco. Sono innamorato di queste atmosfere un po’ nostalgiche. Guardando la tua pagina facebook ho visto un tuo concerto a gennaio in Finlandia(!). Restando in tema, dunque, di influenze: qual è il tuo rapporto con questo paese?
Beh, ho un rapporto ormai decennale con la Finlandia, è una storia che lega a doppio filo la mia famiglia (anche se non ho origini scandinave, ben inteso) con quel Paese. La mia ragazza ad esempio è di Oulu. Mia sorella vive in Finlandia, io vado su almeno 3/4 volte all’anno. Da un punto di vista musicale, ci sono tante cose interessanti. Ad esempio la scena Hip-Hop è gigantesca e fa belle cose. Anche nella musica cantautorale ci sono buoni nomi anche se forse la lingua rende tutto un po’ ostico. Un’artista che mi piace moltissimo è Tiiu Helinä. C’è una scena grossa anche di tango. Insomma è un Paese molto vivo e stimolante, anche perché l’approccio pragmatico dei finlandesi alla vita fa sì che se uno si sbatte la gente se ne accorge.
Che bello! Un mio amico che viaggia spesso in Finlandia mi ha raccontato di luoghi spettacolari, per esempio un lagone con dentro un sacco di isolette, e tu puoi prendere una barca e iniziare ad esplorarle; è un paese che mi affascina molto. Ritornando sul tema dei generi musicali: com’è lavorare nell’ambito di una realtà così affermata nel mondo indipendente italico come Tempesta? Contrasti e similitudini tra l’ambiente produttivo/discografico del reggae (europeo e internazionale, nel vostro caso) con quello del circuito ‘indie’?
Un viaggio in Finlandia è consigliatissimo!
Per quanto riguarda Tempesta, devo ammettere che sono innamorato della mia etichetta. È un insieme di persone che fanno tanto e ci credono. È un’etichetta indipendente ma soprattutto che mira a rendere indipendenti le band al suo interno, si è sempre spronati a stare in piedi con le proprie gambe e mettersi in gioco al 100%. Più un artista ha le idee chiare a prescindere, più La Tempesta è contenta. Il circuito reggae è un mondo a parte, mi fa piacere anche che La Tempesta sia stata forse la prima realtà “indie” ad accorgersi del potenziale reggae in Italia, è stata una scelta coraggiosa di cui siamo molto grati. Penso che il pubblico reggae sia in generale molto stabile, meno mutevole di quello alt/indie/rock. Il panorama europeo è un po’ pachidermico, nel senso che non ci sono grosse rivoluzioni dall’oggi al domani, ma è un pubblico che quando si affeziona segue un artista sempre e dovunque.
Beh, di sicuro però è più coerente del succitato pubblico alt/indie/rock che pare essere sempre alla ricerca della ‘next big thing’ e si dimentica in un secondo dell’artista uscito una settimana fa. Pare che nel mondo indie si vada avanti più per ‘sensations’ che per reali progressi di paradigmi musicali, mentre – sebbene realtà più stanziale – il reggae per sua intrinseca natura mi sembra più propenso a mettere delle radici (roots, non a caso) ed affezionarvisi più facilmente.
Centrato in pieno!
Parlo da completo ignorante del mondo reggae, eh. Ciò che so del reggae è perchè qui a Sasso Marconi, il mio paesino, abbiamo un ragazzo che si chiama Nico Royale che qualche hanno fa ha fatto questa enorme hit e, conoscendolo, ho notato un po’ le differenze tra i due mondi.
Tornando all’album, il disco pare essere un cerchio che si chiude metaforicamente ricongiungendosi con l’inizio, ovvero sia l’opening track che l’ultima sono canzoni dedicate a Jah, quasi due dichiarazioni spirituali che sigillano l’album. Quanto la fede ed in generale il rastafarianesimo è importante nella tua visione del mondo? Sono quindi i raggi del reggae che filtrano attraverso l’architettura folk blues dei brani a dare quella solarità e positività di cui parlavamo prima?
Il reggae mi ha messo senza dubbio in pace con una spiritualità che ho sempre saputo di avere, ma che solo così è sbocciata. A me piacciono gli autori che cercano un qualcosa al di fuori di sé, più in alto quantomeno. È la stessa forza che vedo in Maria Antonietta.
Leggendo il testo di Ulysses’ disciple «but I’m no Ulysses’ disciple so I sang along» emerge la valvola di sfogo più intimista ed empatica, che spesso ritorna leggendo i testi (‘am i waiting or wasting my time?’ – Wings, anche) sfociando nell’emotività e nel racconto delle debolezze. Quanto la narrazione del quotidiano e della tua vita è stata rispecchiata nei testi di questo album?
Il racconto delle debolezze è il primo passaggio – a mio parere – verso la liberazione. È una sorta di confessione costante, non so se mi spiego. È una cosa molto religiosa, da un certo punto di vista. Tutte le canzoni che scrivo partono da un episodio del quotidiano, faccio fatica a descrivere un mondo di idee, ho bisogna di sbattere la faccia sul muro per poterne parlarne! Poi ovviamente romanzo e ricamo dove posso. Nelle canzoni si possono ingigantire le situazioni senza doversi sentire troppo in colpa.
Sono un enorme fan di quest’estetica da super8 nostalgica del video di Heart as a Ghost (immagini evocative e, peraltro, canzone bellissima). Se vuoi, racconta la genesi di questo videoclip.
A me piace molto come lavora Annapaola Martin, è una di quelle persone a cui mi affido completamente, stesso discorso per Paolo Baldini o Mattia Balsamini o mia sorella Teresa che ha fatto le grafiche del disco. Quindi quando volevo fare un video ho ovviamente chiamato Annapaola, a cui il mio disco piace, diciamo che c’è una buona sintonia artistica. E lei aveva trovato questi metri cubi di pellicole filmate da uno zio viaggiatore, e abbiamo deciso di utilizzarle per il video, concentrandoci sul materiale filmato al Nord. Groenlandia, Alaska, Svalbard, Islanda, posti freddi e silenziosi. La proiezione addosso a me trasforma il mio corpo in quel fantasma di cui parla la canzone. E allo stesso tempo posti così inospitali suscitano nello spettatore la necessità di scappare, di cercare un appiglio mentale ad una geografia più confacente, riconoscibile, rifacendosi al “I’m kinda trying to get of here”. Da questo punto di vista la scena del battesimo o dei bambini sono salvifiche.
In conclusione: cosa c’è nel futuro di Giulio? Nuovi progetti coi Mellow, questo lungo tour con Sleeping Tree, cosa vuoi fare da grande…
Allora, il tour di Painless è iniziato a novembre e andrà avanti fino a fine aprile, ci saranno ancora tante date in Italia, una capatina a Berlino e un mini-tour in Polonia. Poi penso di tirare un po’ il freno a mano e salire sul furgone Mellow, con cui stiamo facendo il disco nuovo che uscirà in tempo per l’estate (e che sarà un disco bellissimo a mio parere, siamo molto soddisfatti). Nel frattempo mi piacerebbe pensare ad una prossima uscita The Sleeping Tree, ho già un po’ di materiale che mi convince, vediamo quando avrò tempo e forze per tornare in giro di nuovo. E da grande.. Boh! Mi piacerebbe continuare con la musica, anzi, penso proprio farò così. Tanti dischi e tanti tour.
Grazie mille davvero, bellissima chiacchierata.
Grazie a te! Magari ci vediamo a Bologna il 23 marzo che suono lì?
Volentieri.
Ndr:
Alla fine ci sono andato a vederlo dal vivo, il buon Giulio: un secret concert dentro un minuscolo appartamento di via San Donato. Io ed i miei amici arriviamo tardi, facciamo zig zag tra i tanti seduti a gambe incrociate tra il salotto, la cucina e l’ingresso.Il poster di 8 e mezzo, sullo sfondo; una flebile luce che illumina di spalle il nostro. Atmosfera speciale, sembra davvero un piccolo rito religioso.Giulio è timido, estroso ma introverso, e nei suoi radi sguardi verso gli astanti si intravede un animo profondissimo. Tanti cantano, come preghiere, i testi: sottovoce, con gli occhi chiusi, assaporando l’equilibratissima melodia dell’albero che dorme. La sua voce gentile scandaglia profonda il mistero, la fede e la malinconia. Tra gli highlights della breve esibizione: l’esecuzione da brividi di Going Nowhere, la bellissima Jah takes my soul. “Ma cosa vuol dire Jah?” chiede uno dei ragazzi in salotto. “Semplicemente, è Dio” risponde Giulio, e sorride.