Martedì 27 Ottobre, ore 18.40, Milano zona Barona. Sto camminando con Angel Deradoorian verso un bar dove faremo due chiacchiere. Questa sera all’Arci Birko è in scena la sua prima data italiana per promuovere il primo disco solista, The Expanding Flower Planet, uscito il 28 Agosto scorso. Iniziamo a parlottare del tour europeo appena iniziato e della sua forma fisica, a suo dire, non al cento per cento. Mi mostra le caramelline alla propoli – “for my throat”. Questo veloce scambio, insieme alla fisionomia del viso di Angel, è sufficiente per farmela figurare come una Daria tridimensionale: tranchante, disillusa, sarcastica, assolutamente realista e cosciente. Cosciente di aver suonato in uno dei gruppi più eclettici e concettuali del panorama alternativo contemporaneo, i Dirty Projectors (è stata bassista, tastierista e una delle voci), così come di aver preso parte ad illustri progetti – Flying Lotus e Avey Tare in primis. Cosciente e, proprio per questo, desiderosa di liberarsi da questi eccellenti fardelli e di trovare una strada. Per farlo ha lavorato sulla cosa più intima che un musicista può offrire al proprio pubblico: la voce. Deradoorian ha, senza mezzi termini, una voce straordinaria, tagliente come un bisturi: precisa al millimetro, senza sbavature, capace di inerpicarsi su linee melodiche e vocalizzi tortuosi. Una voce che, sempre a suo dire, ha iniziato a usare con coscienza proprio nei Dirty Projectors. Ma è il momento di schiacciare rec – in questo bar dove il tempo pare essersi fermato un paio di decenni fa.
Devo iniziare l’intervista confidandoti una cosa: ho scoperto da poco che eri proprio tu la voce nella canzone Two Doves dei Dirty Projectors. Adoro quella canzone; penso di averla mandata e fatta conoscere a tutte le persone che ho amato e a cui voglio bene.
Wow, grazie.
Voglio senza dubbio parlare del tuo ultimo lavoro, The Expanding Flower Planet: mi ha colpito molto per tanti motivi. Innanzitutto mi ha fatto molto piacere scoprire che è uscito per Anticon, una delle etichette più virtuose dell’hip-hop sperimentale (ma non solo) e personalmente una delle mie preferite. Mi racconti un po’ come è andata?
Conosco Shaun Koplow (il manager della Anticon, ndr) da quando ho 18 anni. Una volta ho fatto un’intervista con Yoni (Wolf, fondatore degli Why?, ndr) e gli ho dato il mio disco. Mi disse di mandarlo alla Anticon – devo ammettere che pensavo che la cosa non avesse molto senso. Era il periodo in cui la Anticon iniziava ad espandere il proprio roster di artisti includendo nuovi generi. A Shaun è piaciuto il disco: abbiamo parlato tanto, e così si è deciso di lavorare insieme.
Il disco è stato registrato l’anno scorso?
Sì, tutto l’anno scorso dopo aver scritto le canzoni per due anni.
E hai dovuto aspettare fino ad Agosto per l’uscita ufficiale. Scommetto che eri super-impaziente!
Beh sì, ma essendo il primo disco ho voluto trovare le persone giuste con cui lavorare e pure il momento ideale in base al calendario dell’etichetta. Però sì, ero un po’ ansiosa. Ma abbiamo fatto le cose per bene, sono contenta.
Come ho detto prima, ho apprezzato molto il disco. Volevo farti una domanda riguardo il modo in cui usi la voce – che mi ha colpito tantissimo. E’ come sentire uno strumento. Ho letto in un’intervista che i tuoi nonni erano originari dell’Armenia. Ho in effetti riscontrato nella tua voce molte influenze della musica di quell’area geografica. Volevo saperne di più.
È difficile spiegare il processo per cui ho iniziato a cantare. È solo da pochi anni che posso dire di cantare sul serio – è grazie all’esperienza nei Dirty Projectors che ho iniziato a usare la voce; prima suonavo strumenti e basta. E’ lì che ho sviluppato la mia voce e sono riuscita a capire quale poteva essere il mio stile. Ho iniziato ad ascoltare molta musica persiana con melodie spesso puramente strumentali. E’ così che ho iniziato a cantare, cercando di trasporre con la voce quelle melodie. Sento un legame profondo e interiore con quel tipo di suono: non crea un’emozione facile o precisa, ma dà spazio al suono di librarsi e di viaggiare.
Non è empatica, invoglia sicuramente all’esplorazione di spazi e mondi mentali nuovi. Alla fine dell’esplorazione, forse, si può raggiungere uno stato emotivo definito. Devi zig-zagare un po’ per arrivarci. E’ molto affascinante.
Sicuramente. Penso che ci sia una vera e propria epidemia nella musica pop per cui bisogna essere schierati: musica triste o musica felice. Vengo da un’esperienza con un gruppo che può essere considerato pop ma anche sperimentale (ma non troppo!) e che cerca di arrivare al pubblico senza alienarlo. Non mi piace invece questa scelta forzata: triste o felice. Riflettevo molto su questo aspetto mentre stavo finendo il disco: mi considero soddisfatta perché è un lavoro molto esplorativo ma soprattutto non crea quel tipo di emozione…
…facilmente accessibile?
Proprio così.
Proprio collegandomi a questo aspetto. Trovo che la tua musica sia duplice: da una parte abbiamo dei pezzi quasi immobili, sorretti da melodie a mo’ di bordoni, spesso monocordi, e dai vocalizzi; dall’altra parte ci sono strutture e progressioni melodiche veramente complesse e fantastiche. In un panorama musicale che è sempre più spinto verso la ricerca di soluzioni accessibili e facili a livello melodico, ascoltare un disco come il tuo è come dimenticare di essere su questo mondo: si è trasportati altrove.
Per me molte canzoni risultano semplici – a livello di struttura sono bipartite, con piccoli cambi qui e là. Mi sembrano molto facili anche a livello di composizione – ma non voglio apparire presuntuosa. Sicuramente una cosa che mi sta a cuore è la capacità di trasportare altrove – è il mio desiderio più profondo sia come musicista che spettatrice. Ascolto e ho ascoltato tanta musica ma è raro trovare qualcosa capace di trasportarti in altri mondi. Quando hai l’occasione o la capacità di creare musica e di essere libero di fare e essere ciò che si vuole, e non di cercare la soluzione più comoda, beh, credo che l’obiettivo principale sia quello di portare le persone in un altro mondo. E’ quello che voglio: spingere le persone a esplorare mondi nuovi. Ho così tanta libertà di farlo: perché no?
Ho visto su YouTube alcuni video recenti delle tue esibizioni dal vivo insieme a tua sorella Arlene. Mi hanno colpito tre elementi: l’essenzialità del set (basso o synth, due voci, batteria) che riesce a creare un suono tuttavia pieno; la voce di tua sorella, bellissima quanto la tua; la vostra posizione: una di fronte all’altra, come in un gioco simmetrico di specchi. Mi racconti un po’?
Inizialmente volevo suonare tutto da sola. Non volevo una band – quindi ho chiesto ad Arlene se le andava di accompagnarmi in tour cantando. Quando abbiamo iniziato a provare le ho proposto di suonare la batteria – avrei potuto farlo anch’io da sola, ma sarebbe stato ben più lungo e difficile creare le parti di loop da sola. Non aveva mai suonato la batteria prima: abbiamo provato per due settimane ogni giorno per imparare bene le parti. Non avevamo idea di che impatto avesse questa scelta sul pubblico: essere l’una di fronte all’altra è più che altro una questione tecnica. Devo stare di fronte a lei per registrare alcuni parti di batteria col microfono e mandarle in loop. Per quanto riguarda le voci, beh, abbiamo sempre cantato assieme sin da quando siamo bambine: Arlene mi ha aiutato così tanto a ricreare tutte le parti vocali che ho scritto – suona un po’ diverso dalla registrazione del disco però rende bene.
Un’ultima cosa. Non voglio fare il giochino dei paragoni, ma ascoltando il tuo disco mi è balzata in testa una band americana della fine degli anni ’60, gli United States of America, molto psichedelici e ipnotici. Li conosci?
Sì, li conosco un po’. Ricordo che era roba bella – se vuoi anche un po’ cheesy! (ride, ndr)