[column size=”2/3″ center=”yes”]Nata e residente a Gary, Indiana, Jlin è la più giovane, nonché l’unica donna di una scena prettamente maschile come la footwork di Chicago. Tuttavia non è il sesso (“il fatto di essere una donna non influenza minimamente la mia produzione”) a distinguerla dai suo colleghi, bensì la sua ecletticità, che le ha consentito di innovare un genere ormai fin troppo sclerotizzato. Tra i fattori che le hanno permesso questo è da annoverare anche la marginalità di Gary dalla Windy City: “la mia distanza da Chicago ha influenzato la mia musica per certi aspetti. Inizialmente volevo disperatamente cogliere il suono della città, ma ora sono andata molto oltre, sviluppando il mio stile personale”, ci confida la producer quando la raggiungiamo al telefono alle 9 del mattino, ora del centro. Gary è infatti vicina (“si trova a 25 miglia da Chicago”), ma allo stesso tempo lontana: un binomio spaziale dovuto allo stato di depressione che attanaglia questa municipalità, fondata nel 1906 dalla US Steel e ora uno dei più eclatanti esempi del declino industriale americano.
La sua è quindi una formula che si contraddistingue dalla footwork classica per visceralità (TinyMixtapes parla di elettronica con diploma di “nono dan”) e carattere cinematico, per l’abbandono di un piglio funky-soul e di una composizione sample-based: “mia madre ha pensato che i miei lavori fossero meglio senza campionamenti — che la mia voce fosse più espressiva”. Un consiglio di cui la giovane producer ha fatto tesoro: “la sua opinione è molto importante per me, quindi dal momento in cui mi ha detto di seguire quella direzione l’ho ascoltata”. Dark Energy, il disco con il quale ha esordito l’anno scorso, è infatti composto interamente da lei, se non per qualche sample preso da programmi televisivi e videogiochi picchiaduro. Le chiediamo allora se sia una videogiocatrice, ma lei smentisce: quegli estratti erano “semplicemente giusti in quel momento”. Una manipolazione vocale che quindi non è semplice autoreferenzialità, ma un’indagine sul linguaggio, tanto che non è difficile comprendere la presenza, ospite nella traccia Expand, di Holly Herndon.[/column]
[spacer size=”10″]Auf deutsch click auf die 2[/spacer][column size=”2/3″ center=”yes”]A questo punto, analizzando il suo rapporto con il testoteronico genere di Chicago è venuto spontaneo domandarle se lei si sentisse limitata dall’essere etichettata come artista footwork: “è la prima volta che mi fanno questa domanda”, ci rivela con un certo entusiasmo. “Non mi ritengo un’artista footwork. Indubbiamente in Dark Energy e nei miei lavori precedenti sono presenti molti elementi di questo stile, ma non tutto è propriamente footwork. Cerco di prendere elementi da questo stile e di adattarlo alla mia musica”. Una presa di coscienza che conferma la matrice post-juke della sua musica, fatta di convulse percussioni e roboanti hi-hat, ma nella quale è possibile peraltro individuare ingranaggi grime e richiami tribali e dubstep di reminiscenza Shackleton-iana. Un’alchimia di cui cerchiamo di ripercorrere, insieme alla sua autrice, la genesi: “un giorno sono stata contattata da Mike Paradinas, boss della Planet Mu (nonché mente dietro al moniker u-Ziq, ndr.), dopo che aveva sentito il mio lavoro su Facebook. Tutto ha avuto inizio da lì”. Planet Mu è il principale esportatore europeo di footwork, sul quale Jlin non solo ha pubblicato il proprio debut-album, ma ha fatto anche la sua comparsa nel secondo volume della monumentale, quanto seminale, serie Bang & Works, compilation dell’etichetta che ha sdoganato la footwork al grande pubblico. Da quel momento, Jlin intraprese “un processo molto veloce e spontaneo”, che la portò addirittura sulle passerelle di Rick Owens. Un’esperienza di cui non cela la propria soddisfazione: “Rick Owens mi ha contattata e voleva usare dei loop dei miei lavori per le sue sfilate. Io però ho preferito collaborare con lui per modificare i pezzi in modo da adattarli alla sfilata. Il risultato è stato molto interessante”. E aggiunge: “l’arte di Rick Owens è l’esatto opposto della sua personalità: lui è molto dolce e concreto. Avevamo molto in comune, principalmente l’attitudine al lavoro, e il confronto tra di noi ha creato qualcosa di nuovo ed inaspettato. Mi ha ispirata molto.”[/column]
[spacer size=”10″]Auf deutsch click auf die 2[/spacer][column size=”2/3″ center=”yes”]Un episodio che ha anticipato proprio l’uscita di Dark Energy, lavoro sul quale la interroghiamo circa la sua componente più scura, esplicitata fin dal titolo. A tal riguardo, Jlin rivendica una valorizzazione dell’oscurità, (non) luogo in cui poter ritrovare sé stessi. E lo fa attraverso alcune metafore: “se tu guardi il dizionario è pieno di accezioni negative di oscurità, ma se ci pensate veniamo tutti dall’oscurità. Quando nasci emergi dall’oscurità del corpo umano e questa è una cosa meravigliosa”, e aggiunge: “quando metti il carbone sotto pressione ne esce un diamante”. Un’oscurità che in molti hanno erroneamente ricondotto ad un sentimento industrial avvertibile nella sua musica. Jerrylin lavorava infatti come metalmeccanica, occupazione che però non ha influenzato né la sua musica né il suo iter compositivo, tanto che alla nostra domanda sul mutamento di routine all’indomani dell’abbandono del suo impiego ci risponde: “lasciare il lavoro non ha influenzato molto la mia produzione. Ovviamente ho più tempo da dedicare alla composizione e sono molto meno stressata, però non ho notato differenze sostanziali”. Tuttavia, quando le domandiamo cosa ha in serbo per noi Black Origami: The Motherboard, l’album nato da questa inedita condizione, ci risponde: “penso che dobbiate aspettarvi qualcosa di completamente differente da Dark Energy“.[/column]
[spacer size=”10″]Auf deutsch click auf die 2[/spacer][column size=”2/3″ center=”yes”]Un impegno full-time nella musica che è stato coadiuvato soprattutto dall’attività live che la producer ha intrapreso solo recentemente, su suggerimento di Kuedo. Noi l’abbiamo intercettata a novembre per la sua prima performance europea all’Unsound Festival, accompagnata per l’occasione dell’artista performativo Avril Stormy Unger e il visual artist Florence To. “È stato strano inizialmente”, ci premette, “il mio video artist ha avuto dei problemi e io ero molto tesa e preoccupata, oltre ad essere impegnata nel nascondere il mio imbarazzo”. Una vulnerabilità che tuttavia non le ha precluso di esprimere tutto il proprio potenziale: “per fortuna è andato tutto bene, ed esibirsi davanti a quel pubblico, calata in quell’atmosfera, è stato il miglior momento della mia carriera artistica”. Il suo set è stato infatti uno degli highlight dell’intera rassegna: un flusso inarrestabile (lei dice di essersi ispirata all’acqua) di materiale irregolare in espansione. Un’esibizione che siamo certi bisserà anche nella sua prima apparizione italiana, in programma il prossimo venerdì negli spazi della Santeria Social Club per la prima serie di appuntamenti milanesi di Club To Club: un asso pigliatutto con il quale cominciare la prima mano.
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