«Prima ci sentivamo alla scoperta del mondo, alla scoperta dei sentimenti. C’era un modo di approcciarsi a questi sentimenti che era diverso, molto forte, molto libero. Oggi invece c’è molta pausa ad avvicinarsi a sentimenti passati. Perché la società ha fatto in modo che noi li perdessimo».
Quando la conversazione si sposta sul passato, James Senese è abbastanza nostalgico. Per uno che, nella musica, è sempre stato 20 anni avanti agli altri, la cosa potrebbe addirittura sembrare incoerente, ma come non si potrebbe essere nostalgici della Napoli degli anni ’70/’80? Musica, cinema, arte – così come politica ed economia – erano in fermento, la città si preparava ad accogliere il suo Dio e la sperimentazione era qualcosa di molto più reale di una semplice utopia.
Riassumere la carriera musicale di Gaetano Senese – chiamato nel quartiere col nome di suo padre, James – è praticamente impossibile. Così come lo è quantificare il debito che la musica italiana ha nei suoi confronti, un debito che James sente non essere mai stato ripagato a fondo. Se la musica nera è arrivata in Italia, se jazz, prog-rock, canzone melodica hanno raggiunto quei livelli di sperimentazione, gran parte del merito è soprattutto suo, così come dei vari Franco del Prete, Tony Esposito, Tony Walmsley.
40 anni dopo, James e i suoi Napoli Centrale (che nella formazione attuale comprendono Agostino Marangolo, Gigi De Rienzo ed Ernesto Vitolo) si esibiranno giovedì 30 novembre all’interno della nuova edizione del Jazz Re:Found, a Torino. Lo abbiamo incontrato per parlare di quella che è, oramai, una carriera leggendaria, legata indissolubilmente all’anima Americana di Napoli che lui, figlio della guerra, ha saputo raccontare meglio di tutti.
Tuttavia, quando ci si approccia a intervistare James Senese, è molto difficile non farsi influenzare dalla sua più celebre “intervista”: quella che Lello Arena gli fa in una iconica scena di “No grazie, il caffè mi rende nervoso”, film diretto da Lodovico Gasparini con Massimo Troisi oltre che i sopracitati Arena e Senese (che ne compose anche la musica), che – non a caso – si regge sulla dicotomia tra tradizione e innovazione. In quell’occasione James appare impaziente davanti alle “provocazioni” del giornalista del Mattino che, controvoglia, gli legge le domande di una collega. Ma Senese è in realtà una persona molto disponibile, delicata e sicura di sé, che ripete all’infinito la parola “sentimento”, lasciando così intendere il senso più profondo della sua musica. Quando mi risponde al telefono però non posso far altro che imitare Arena:
James, James Senese? La chiamo per l’intervista…
Va bene, cominciamo.
Cosa ricordi della scena musicale napoletana degli anni ’70?
In realtà, se parliamo dei tempi passati, non c’era nessuna scena, tranne quei cantanti conosciuti da tutti, come Carosone o Peppino Di Capri, che erano le figure dominanti. Stiamo parlando di musica che aveva comunque una sua componente di sperimentazione, però fatta da cantanti che erano già commerciali, oltre che molto famosi.
Perché scegliesti di cominciare a suonare il sassofono?
È stata una scelta istintiva, ricordo di aver ascoltato questo suono e di essermene innamorato subito. Ho scoperto poi che quel suono proveniva da quello strumento che si chiamava sassofono, ma l’amore immediato è stato verso il suono. E così che il sassofono è diventato il primo strumento che ho imparato a suonare, e si può dire anche l’ultimo.
L’idea del canto arriva quindi dopo?
Il canto è stato un canto forzato, perché io non avevo mai cantato, nascevo come sassofonista. È successo tutto per colpa degli altri, senza fare nomi, per vivere e fare musica in questa società mi sono dovuto adeguare e cominciare a cantare.
In “Bon Voyage”, uno dei brani tratti da ‘O Sanghe, dici che questa terra, Napoli, è ingrata a chi gli vuole bene. Questo tema ritorna un po’ in tutta la tua discografia, così come in quella di Pino Daniele. Dopo tutti questi anni di attività, sei ancora di quell’idea?
Guarda, noi abbiamo sempre cercato di interpretare la società che ci trovavamo davanti, cercando di far capire dove si trovavano i nostri sentimenti. Facciamo di tutto per far capire agli altri che il male è il male, e il bene è il bene. Abbiamo costruito questa realtà dagli anni ’70, anche da prima di Pino Daniele. Lui era sicuramente un grande autore di canzone melodica napoletana, un grande autore che è stato capace di far capire agli altri il sentimento di questa parte del nostro sud. Noi invece eravamo molto più estremisti, e lo siamo ancora, anche se usiamo un linguaggio più pacato. Sappiamo bene però tutto quello c’è intorno a noi, sappiamo quello che funziona e quello che non funziona, e cerchiamo di far capire a chi ascolta di non sbagliare, di scegliere la via giusta. Di andare dove ci porta il cuore o addirittura dove ci porta Dio. Parliamoci chiaramente: purtroppo per quel poco di male che c’è, e che i media fanno dominare, si tende ad avere una idea sbagliata. Ma Napoli ha (ed ha sempre avuto) questa cultura che non ha quasi nessuno al mondo. Il problema nostro è che quei pochi che trattano il male in un certo modo sono dominanti. Questo fa sì che il male, seppur piccolo, prevalga. Ma Napoli è una città piena d’amore. Dobbiamo cercare di debellare quel piccolo male con i nostri sentimenti.
E la musica deve dare un contributo?
Assolutamente, il contributo della musica in questo senso deve essere assoluto. La musica è la prima cosa che fa muovere i sentimenti. Senza musica, come si farebbe?
A proposito di Pino: ricordi la prima volta che vi siete conosciuti?
La prima volta che ci siamo visti è stato a casa mia, venne lui a chiedere di James (che Senese pronuncia, con un meraviglioso accento partenopeo Gems”, ndr) e dei Napoli Centrale. Mi ricordo ci disse “Ho sentito i Napoli Centrale, mi hanno fatto impazzire, voglio suonare con voi”. Così ci siamo conosciuti…
Si è sempre tanto parlato di Neapolitan Power. Che cos’era, secondo te, il Neapolitan Power?
Il Neapolitan Power nasce prima di tutto per descrivere noi di Napoli Centrale, il Neapolitan Power siamo noi. Poi si è creato tutto il movimento attorno, ma noi siamo stati i primi a far capire agli altri dove potevamo andare.
Com’era essere nero negli anni ’50, e cioè in una società che non aveva mai fatto i conti con la diversità?
C’è stata molta sofferenza in quella fase della mia vita. Sono nato nero, mio padre era americano e mia mamma napoletana (in realtà James dice “napulitan’” che non è esattamente la stessa cosa, ndr), e ho dovuto sempre combattere con questa cosa. Combatto ancora oggi, perché non è che sia passato poi, quel sentimento nelle persone. Si è un po’ evoluto il nostro sistema ma la distinzione tra colori esiste sempre. A quel tempo ho dovuto anche imparare a difendermi.
Una figura fondamentale è stata tuo nonno…
Sì, lui è stato tutto, un nonno, un padre. Mi ha insegnato lui il rispetto, l’educazione, il sentimento. Poi, come si dice, o si nasce storto o dritto. Io per fortuna sono nato dritto.
Ricollegandomi in un certo senso a questo, volevo chiederti un ricordo di una delle più belle (a mio parere) canzoni mai scritte dagli Showmen 2, “Abbasso lo Zio Tom”…
Cercavamo già allora di far valere i nostri valori nella società. Io ero allora, e sono ancora, quello che poteva ribellarsi allo stato delle cose. Lo vediamo ancora oggi, tutto quello che succede coi migranti, questa forma di razzismo resiste ancora. E in quel pezzo abbiamo cercato di far valere le nostre idee per quello che erano.
Hai mai pensato di lasciare Napoli?
Quasi mai, sono sempre stato molto legato alla mia famiglia, ai miei figli e tutto quello che avevo intorno. Non valeva la pena espatriare lasciandoli soli in questa società che è quella che è.
Sei stato per un periodo in America però. Cosa ti sei portato dietro da quell’esperienza?
La cosa più incredibile è stata che io non mi sentivo né americano né napoletano. Quando stavo in America gli americani mi prendevano per americano, ma a Napoli era lo stesso, me piglien’ ‘o stess’ per american’, ma ie invece so’ napulitan’.
Nel primo, omonimo, album dei Napoli Centrale, assieme ad un suono incredibilmente internazionale ci sono tantissimi riferimenti, anche linguistici, a fatti, cose e modi di dire squisitamente napoletani. Avete mai pensato potesse essere un limite, quello della lingua?
Assolutamente no, era il contrario. Il linguaggio non è altro che un suono in realtà, un suono di sentimenti. Qualsiasi sia la lingua quindi, se è fatto bene, se esce fuori il sentimento, tu non ti accorgi neanche di che lingua è. La nostra poi è una lingua, non un dialetto, anche se per forza vogliono affermare che sia un dialetto, ma no, è una lingua.
Uno dei titoli più particolari della tua discografia è, sicuramente, Azteco Blood. Da dove viene?
Nasceva comunque sempre da una idea di riscoperta naturale che noi abbiamo sempre avuto dentro. Non abbiamo mai fatto gli intellettuali, non ci siamo mai seduti a tavolino prima per decidere le cose. Sono frasi istintive, che rispecchiano quello che vogliamo essere e che vogliamo soprattutto comunicare.
Negli ultimi anni, in Italia ma un po’ ovunque, c’è stata una forte operazione di riscoperta della musica etnica, un qualcosa che musicisti come te o Tony Esposito avevate messo in atto in tempi non sospetti. Che idea ti sei fatto del fenomeno?
Tutto quello che sta uscendo adesso, e che porta una sorta di rivalutazione della propria cultura, arriva sempre tramite noi. Altrimenti nessuno si sarebbe accorto di quel tipo di linguaggio. Però oramai quel tipo di suono è nostro, è diventato dominante con noi e fa parte di Napoli, che in questo, nella ricezione di stimoli, è una città unica al mondo. Gli altri poi vengono a prendere questo linguaggio, ma a quel punto è troppo tardi oramai.
Chi è stato, secondo te, l’artista più sottovalutato nella musica napoletana?
Non ti rispondo Napoli Centrale, ma sono convinto che noi avremmo dovuto occupare un posto “migliore” , un posto dovuto. Anche se ce l’abbiamo quel posto, ma stiamo sempre in ballo, in bilico. I mass media fanno sempre in modo che vada avanti l’artista più conveniente. Napoli Centrale dovrebbe stare non dico al primo posto, ma lì, a giocarsela.
Se dovessi dirmi qualche disco jazz italiano fondamentale nella storia del genere, quale sceglieresti?
Secondo me i dischi più importanti, da un punto di vista di “sperimentalità”, sono stati quelli degli Area. Gli Area erano un gruppo molto forte, simile al nostro per quanto riguarda i sentimenti e la ricerca dell’avanguardia. Per il resto sono tutti gruppi commerciali, durati anche poco.
Cosa avresti fatto senza musica?
Certamente qualcosa di sperimentale. Mi sarebbe molto piaciuto fare fisica nucleare ed esplorare quel mondo lì, anche legato alla fantascienza. E sarei stato uno forte anche lì.