Uscito per Garrincha dischi lo scorso 2 ottobre, Cucina Povera, il secondo disco dei veneti ManzOni, ci accompagna tra la pagine di un racconto domestico, ma universale.
Le corde tese delle 4 chitarre si intrecciano tra loro e, puntellandosi a colonne di loop e sapienti colpi di batteria, vanno a creare un recinto di fuoco post-rock a proteggere e valorizzare le parole di Luigi Tenca, voce narrante rubata alle cancellerie dei Tribunali.
Lo stesso titolo lascia intuire la direzione presa dal disco, l’intenzione di valorizzare quanto di più semplice ci circonda, ne più ne meno di una zuppa di pane raffermo.
I suoi testi, declamati con viscerale passione, mostrano doti descrittive incredibili, quasi puntassero un macro obiettivo sui dettagli più umili del quotidiano. Così accade la magia senza che, però, la si possa definire poesia. è stato lo stesso Luigi a pregarmi di non usare quella parola, non per lui, non per il suo lavoro.
Per capire ci ho messo un po’.
Quella dei manzOni, in effetti, non è poesia, non ricorre a figure retoriche, simbolismi, metriche complesse. Quella dei manzOni è pura prosa cesellata sui particolari, al punto da far loro prendere vita, con una capacità evocativa che gli oggetti stessi non sanno di avere. Luigi è Mago Merlino: infonde vita e voce alle cose, rendendole di fatto capaci di raccontare piaghe sociali e pieghe del cuore, con una maestria che molti versi non avranno mai.
Il disco si apre con violenza, oltre un minuto di loop distorti e strumentali, quasi spaventosi, una sorta di stargate obbligato che catapulta chi ascolta davanti ad un televisore. Mario in diretta tv, appunto. Un operaio in cassa integrazione che manifesta a Roma viene intervistato in diretta. Mario che sgobba da decenni perchè il figlio possa non sgobbare mai più. E quello gli si laurea in Filosofia! Una sorta di Father & Son tutta italiana, umile e concreta, come lo scontro generazionale di chi la cultura non l’ha mai avuta e chi sembra specarla, mostrando il fianco a coloro che affermano che con la cultura non si porti il pane a casa. Il tutto non detto dalle parole di Mario, da una bestemmia che sfugge in diretta ed imbarazza tutto e tutti, telecamera inclusa. Lo scontro generazionale, le convinzioni granitiche, le paure: tutto nascosto nelle parole di Mario.
Tempo pochi attimi e la rabbia si stempera nell’incedere timido di Dal diario a mia madre, struggente dolcezza di una visita in ospedale, un silenzio farcito di amore e di domande, quelle che si fa chi è destinato a restare, talvolta invidiando coloro che vanno, verso chissà quale paradiso.
Poco più in là c’è Ed ecco l’alba, metallico scandire di una quotidianeità monotona e snervante che finisce per prendersi anche il sonno. Il battere metallico dell’orologio che si distorce angosciante nell’incedere marziale della catena di montaggio, senza sosta, senza soluzione di continuità. E tutto finisce per diventare disgustoso, dal barattolo del caffè all’odiata corriera.
Che questo disco fosse un autentico gioiello di stile e profondità lo potevamo già intuire dalle canzoni che lo hanno anticipato: Dimmi se è vero e Una Garzantina. La prima ad indagare il segreto del tempo, tra le concessioni della giovinezza e i baluardi generazionali dei vecchi da balera. La seconda che tenta di scardinare l’incomunicabilità in cui si insacca troppo spesso l’amore, sulla scia di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, la ricerca di un significato comune per i gesti di tutti i giorni, tra fraintendimenti e faticose sincerità.
Quello che forse non si riusciva ad imaginare era che questo disco sarebbe stato bello e prezioso tutto, dall’inizio alla fine, e che, anzi, alla fine, avesse la forza di sfoggiare la sua gemma più luminosa. Sto parlando di La strada, traccia conclusiva dell’intero lavoro. La strada scorre sotto le ruote di un’auto e con lei i pensieri, evocati dai titoli del giornale dimenticato sul sedile del passeggero. Ed ogni cosa è pretesto, apre divagazioni, esattamente come ogni oggetto in cui ci si imbatte può avere il potere di ricordarci altro, di evocare momenti, pensieri, impegni, appunti mentali. Il tutto nella canicola lattiginosa che le chitarre fanno tremolare fino all’esasperazione. Andata e ritorno, da dentro a fuori e poi di nuovo dentro, ai rapporti umani senza dipendenza, all’addomesticarsi al distacco, alla distanza, alle cose che finiscono per sostituire la presenza.
“Non ho più paura di vederti mentre ti allontani di spalle: con un cd masterizzato, con un tuo giornale accanto a me mentre guido, con quello che conservo di te, posso vivere.”
Bella prova, quella dei ManzOni. Intensa, profonda, capace di rinnovarsi ad ogni ascolto proprio come una cena in trattoria sa offrire sempre una buona ragione per tornare.
Oppure su bandcamp dove potete anche acquistarlo.
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