Da Soundtrack a These Days, sembra quasi abbiate voluto capovolgere la ruota dei colori in favore di una metamorfosi palese sin dalla scelta dell’artwork del disco. Questa nuova sinestesia, percettibile tanto nell’estetica quanto nei contenuti, potrebbe essere intesa come un esercizio di sperimentazione sonora, dovuto anche alle sensazioni del momento?
Sì, prima di tutto è stato un esercizio, senza nessun rimando ad altro, che poi è diventato un lungo carteggio, tra me e Alessandro. Nel mezzo sono passate anche le sensazioni del momento, dalla Norvegia abbiamo guardato il mediterraneo e dal mediterraneo abbiamo guardato la Norvegia, con la musica a farci da mappa.
La musica in Italia viene ancora considerata da molti un hobby. Organizzare un concerto risulta sempre più un’operazione complessa e richiede un dispendio di risorse finanziarie ed energie non indifferente. Così mentre in altri paesi, penso all’Inghilterra, vengono approvate leggi che liberalizzano gli eventi live, il bel paese sembra procedere con passo decelerato. Quanto è stato importante per voi avere Londra come piattaforma di distribuzione musicale? E cosa vi ha spinto a pensare che la Monotreme Records fosse l’etichetta giusta per voi?
Abbastanza, ha eliminato quasi del tutto certe pigrizie ombelicali che fin dall’inizio abbiamo cercato di evitare. Però è stata anche una cosa improvvisata, abbiamo mandato il disco in giro e quando Monotreme ci ha scritto abbiamo pensato:”ok, ci può stare, vediamo cosa succede”.
Cosa ricordate dei vostri inizi?
La prima prova, quando sono entrato nella macchina sbagliata pensando fosse quella di Alessandro.
Contrariamente a quello che il titolo These Days potrebbe suggerire, è sbagliato tuttavia ricondurre l’essenza del lavoro al fattore tempo. Avete infatti più volte ribadito che a giocare un ruolo decisivo sia la misura degli spazi, intesa come insieme dei luoghi e di esperienze biografiche che hanno in qualche modo caratterizzato il vostro excursus musicale. Ce ne parlereste?
Il titolo non è stato scelto per il significato che ha, il significato glielo abbiamo assegnato dopo, probabilmente nel rispondere a qualche intervista. I significati sono immanenti al lavoro, li trovo sparsi all’inizio, dopo è pura e semplice emendazione. In ogni caso, tra tutti i significati possibili, quelli più forti sono quello della biografia e del carteggio. E’ un po’ strana come cosa, perché è il disco più pop che abbiamo fatto, ma non c’è niente di espositivo in These Days: è l’esito di esperimenti e condivisioni, che non erano pensate con dei fini particolari. Anziché chiederci, in una mail, “ciao come stai?”, ci mandavamo dei pezzi.
A distanza di un mese dall’uscita dell’album, vi ritenete soddisfatti di come il progetto sia stato accolto dal pubblico? Come vivete l’appropriarsi dei vostri lavori da parte dei fans?
Sì, dai. Non lo so, bene.
È chiaro che con il nuovo album abbiate intrapreso un decisivo cambiamento di rotta. Fare musica a volte vuol dire cimentarsi con prospettive sonore diverse riservandosi uno spazio di maggiore libertà esecutiva; ma al di là dell’aspetto a tratti anche sperimentale, si ha come l’impressione che i brani di These Days siano in possesso di quella compattezza che nel complesso dimostra la grande versatilità dell’album. È così? Quale pensate sia il vostro il punto di forza?
Sì, e per quanto riguarda il punto di forza, forse, è che siamo due ma siamo uno. Ci sono anche aspetti negativi, ma diciamo che in generale abbiamo sempre lavorato come se si trattasse, allo stesso tempo, di un progetto solista e di un progetto di gruppo. Alcuni pezzi li faccio solo io, altri solo Alessandro: è come se ci fosse un fuori del dentro. Ecco, forse è questa l’essenza di These Days, per tornare al punto di prima.
Ci potete parlare un po’ della registrazione, del processo di produzione e delle persone che hanno contribuito alla realizzazione del prodotto finale?
La registrazione è stata piuttosto frammentata. Abbiamo registrato le batterie a Settembre, il pianoforte a Dicembre, e le voci a Gennaio, e nel frattempo aggiungevamo cose che registravamo in casa, così fino a Marzo. Abbiamo fatto quasi tutto all’alpha dept studio di Bologna, con Andrea Suriani. Batterie e percussioni sono di Marco Frattini, che ci segue anche in molti live.
Il merchandising è stato sin dagli esordi una componente rilevante nel processo di identificazione del vostro progetto. Nell’epoca della dematerializzazione culturale, verrebbe da chiedersi come mai oggi il mercato musicale trovi maggiori riscontri nell’acquisto di t-shirt, spillette e adesivi, piuttosto che nella vendita del cd. Quali i vantaggi e gli svantaggi secondo voi? E divagando un po’, pensate che l’estetica dei vostri lavori abbia contribuito alla promozione degli stessi?
Fin dagli inizi abbiamo sempre concepito il merch come una sorta di estensione della nostra musica, come un’altra piattaforma, per costruire le stesse cose con strumenti diversi, e vederle cambiare. In generale abbiamo sempre venduto un po’ tutto, disegni, magliette, orsetti cuciti a mano, poster, insomma, abbiamo sempre messo sulla banchetta tutto ciò che facevamo oltre alla musica. Credo che la nostra estetica ci aiuti forse ad essere più riconoscibili, crea uno sfondo, che è fondamentale, ma non è una scelta premedita, è così e basta.
Quali realtà musicali contemporanee vi intrigano di più in questo momento? C’è un artista con cui vi piacerebbe collaborare?
Portico Quartet
Un’ultima domanda. Come sta andando il tour?
Bene, perché non è ancora cominciato! Per ora abbiamo fatto un mini tour in UK per presentare il disco, e tre date in Italia – Milano, Roma, Bologna. Il tour italiano comincia a Dicembre.