Iniziamo parlando di un altro discone dell’anno scorso dato che noi ce ne fottiamo della corsa frenetica alla novità dell’ultimo minuto, vero? (figura da pigrone/persona-che-non-ha-più-una-vita sventata).
I Somos sono una band della floridissima città di Boston MA e sono diventati tipo il mio gruppo preferito degli ultimi 3/4 mesi. Temple of Plenty è il loro LP di debutto, anche se ad ascoltarlo sembra già un capostipite del genere. Che genere? Beh siamo in territorio punk, ma forse più pop-punk che emo. A dire il vero, è difficile inquadrare i Somos, è come se avessero preso mille cose buone da mille bei gruppi del pianeta indie-emo-pop-punk per costruire un ibrido incredibilmente catchy, ma al contempo estremamente maturo.
La prima cosa che sentiamo facendo partire il primo pezzo Familiar Theme, è il riff di chitarra che strizza l’occhio ai Blink–182. Ma dopo pochi attimi facciamo conoscenza di uno degli elementi fondamentali del disco, ovvero la particolare voce del cantante/bassista Micheal Fiorentino; il cantato è molto controllato, nasale ed ha un retrogusto a metà tra Tom De Longe (intonato) e i cantanti indie della sponda UK. Che io sappia Fiorentino è di Boston, ma ha un accento che in qualche modo lo fa sembrare decisamente più europeo, e questo, grazie anche a come Phil Haggerty e Justin Hahn conversano con i riff di chitarra, contribuisce in qualche modo ad avvicinarli all’adorato suono dei Crash of Rhinos— l’evidenza più estrema la si trova in Lives of Others, quando parte il ritornello “It started as a daydream / it endend as a nightmare”. Sulla voce di Fiorentino mi soffermerei ulteriormente, facendovi ascoltare questa versione acustica di Domestic, dove, scendendo di qualche tono, si percepisce molto meglio quel suo vibrato che sembra uscire diretto dalla bocca di Zach Condon.
Temple of Plenty è un disco da cantare che ti fa battere il piedino a tempo, anche se ha al suo interno costruzioni melodiche e ritmiche complesse, quasi mai lineari. Il fatto che melodia e tecnica riescano a dipendere indissolubilmente l’una dall’altra, è la prova di come i Somos siano stati capaci di maturare un suono che riesce conciliare i sentimenti di chi si sente attratto dalle dinamiche pop-punk, ma non ha più 16 anni. Anche i testi vertono più che altro su dinamiche sociali e analisi di fallimenti—siamo sempre in territorio emo, ok—generazionali, più che di amori non corrisposti e dolori che ne conseguono.
Nel frattempo sono usciti due split, uno con gli—Have Mercy e un altro alla fine del 2014 con i Sorority Noise—dove i Somos posano altre pietre a costruzione della loro credibilità e maturità (ricordiamoci che i componenti viaggiano tutti tra i 22 e i 25 anni). Qui sotto un PEZZONE tratto dallo split coi Sorority Noise.
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SALTINO VELOCE IN GIAPPONE. Avete presente quella figata che abbiamo fatto qui in casa dlso? Sto parlando di DRITTE, il (primo?) numero cartaceo dove ciascuno della redazione vi diceva sottovoce “oh beccati sto gruppetto clamoroso”. Ecco, io ho parlato dei tricot, o sarebbe meglio dire “delle” tricot. Sono in tre, sono donne, sono giovani e fanno bruttissimo. Immaginate di mischiare la facilità del j-pop alla difficoltà del math-rock e risultare comunque più orecchiabili e gioiosi di Cristina D’Avena. È ora disponibile per l’ascolto A N D, il loro ultimo disco, dove le aspettative non vengono deluse.
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I Title Fight hanno cacciato fuori il nuovo disco e anche loro si sono trasformati in una bestia più docile e sognante, rispetto alla rabbia hardcore a cui siamo siamo stati abituati dai loro precedenti dischi. Questo potrebbe essere sinonimo del fatto che Hyperview esce su ANTI- Records—ovvero la sorella non punk della Epithaph—ma, a dire il vero, la parabola soft era nell’aria, a guardare il cambio di intenzioni avvenuto fra i molti pezzi tum-pa-tutum-pa-tum-pa di Shed (e dei precedenti EP raccolti in The Last Thing You Forget) e alcuni dei più lineari e calmi di Floral Green (basti pensare a Head in The Ceiling Fan).
In Hyperview però il cambio è ancora più radicale, non perché d’improvviso si siano messi a fare pop-punk— a loro matrice hardcore è infatti ancora riconoscibile—quanto per il fatto che l’intero disco sembra una versione di Floral Green sotto acidi. Già in Murder Your Memory (il primo pezzo dell’album) veniamo accolti da un riff di chitarra liquido e flangerato, su cui la voce—sempre meno urlata—di Ned Russin si adagia come un fosse un accompagnamento, piuttosto che un elemento di rottura. In Chlorine—che poi è stato il primo singolo scelto dell’album—capiamo subito che i TF non si sono snaturati del tutto e che hanno mantenuto i connotati di una band post-hardcore, ma i suoni hanno subito una mutazione: le chitarre sono molto più acide e riverberate, il cantato è più trascinato e meno ruvido, il ritmo è calato di velocità ed intensità. L’intero disco si trova subordinato ad un’atmosfera psichedelica e sognante, come se ci fosse una coltre di nebbia (prodotta da qualche dozzina di bong, anche se il gruppo ha dichiarato di essere straight-edge) a ricoprire ogni pezzo. Insomma, se già eravate fan dei TF e vi piace gente tipo Dead Meadow e Dumbo Gets Mad potreste aver trovato il vostro disco dell’anno.
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Dei Chambers vi avevo già parlato qui, in occasione del loro penultimo disco Colpi Scapoli. Il quintetto toscano torna oggi sulla scena con La Guerra dei 30 anni, il nuovo disco in uscita su To Lose La Track. I Chambers mi sono piaciuti ad ogni loro uscita, si sono sempre dimostrati intensi, granitici e con una forte attenzione ai testi delle loro canzoni. Nell’ultimo disco qualcosa è cambiato, sul fronte sonoro. Ma su questo ci torneremo su dopo.
Il titolo del disco, con un gioco di parole, cita uno dei conflitti più disastrosi della storia per parlare delle difficoltà che attanagliano quel punto cruciale della vita che è, appunto, il raggiungimento dei 30 anni. Tra l’altro, azzardo anche un’interpretazione della copertina: quei tre cannoni rivoltati sembrano proprio alludere a tre candeline—una per ogni decade—da spegnere. La dichiarazione allegata al disco recita:
Con La guerra dei trent’anni i luoghi tornano ad essere reali, fatti di identità, di carattere. Di ore di buio e di sorrisi. Il luogo come mèta di un viaggio, come spazio da attraversare, conoscere, osservare e vivere. Luoghi che esistono fisicamente e temporalmente, ma che negli anni che passano sentiamo scivolarci di mano, finiamo per strapparceli di dosso, perdendo con essi i nostri istinti e vedendone annientato il ruolo.
Provando ad interpretare il concept dell’album, è come se i ricordi di quei luoghi luoghi, fossero i simboli di cosa eravamo prima, di quel periodo della nostra vita da cui ora stiamo a fatica cercando di discostarci, perché bisogna evolvere, maturare o piuttosto perché è un periodo che ci ha causato dolore. Una volta che però superi lo scoglio e riesci a voltare pagina, ti senti stranamente triste ad aver abbandonato quegli stessi luoghi/ricordi che, alla fine, hanno definito la tua identità fino a quel momento. Ascoltando A Largo—uno dei pezzi migliori—il ritornello infatti ci dice: affogare qualcosa di inaffondabile, e poi capire come rimanere in superficie se mi sento senza un nome.
A livello di suono, i Chambers hanno osato un bel po’ in questo album. Diciamo che l’intero disco è molto più cupo e molto meno math de La mano sinistra. Il lavoro più particolare è stato fatto sulle chitarre, di cui infatti ho letto svariate opinioni non proprio positive—pure di gente con cui generalmente mi trovo d’accordo (CIAO ELIA)—e di cui è stata contestata la produzione, decisamente confusa e poco aggressiva. A me le chitarre sono piaciute UN SACCO e anzi, avrei voluto che i Chambers si fossero lasciati tentare ancor di più dalle dissonanze. Cioè, per farvi capire quanto io sia malato, la prima volta che ho ascoltato A Riva e quelle chitarre fredde e taglienti che entrano a circa 20″, mi sono talmente gasato che ho subito pensato a Kenose dei Deathspell Omega, ovvero il mio disco preferito di una delle mie band black metal preferite. Lo so, è assurdo, ma questa sensazione si è rafforzata quando è partito A Largo e anche nelle chitarre iniziali di Per Strada. Quindi ok, i Chambers non hanno fatto un disco perfetto, ma la loro attitudine a cercare un suono originale e la cura dei loro testi li confermano anche quest’anno come una delle band italiche su cui continuare a scommettere, anche nel 2015.
Qui beccatevi Kenose e poi ditemi se anche voi siete pazzi come il sottoscritto.
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Ed ora è tempo di un piccolo sipario sulla scena emergente italiana:
Gli Egle sono una band che a marzo ha deciso di cacciare fuori la sua prima manciata di canzoni. Al suo interno c’è un amico, proprio quell’Elia che ho menzionato prima a cui non è piaciuto il disco dei Chambers. Proprio per questo motivo dovrei stroncare il disco, #einvece no, non lo faccio perché sono GIUSTO. Ma anche perché il debutto self-titled degli Egle è un disco che centra le corde giuste, prevalentemente per chi è schiavo di certe sonorità emo-punk. C’è una buona produzione, ci sono dei fighissimi arpeggi twinkle, un po’ di FBYC, un po’ di Verme, ma anche — rimanendo in suolo italico — un pizzico di Ministri, soprattutto quando il cantato è meno urlato. Pezzo preferito che ho ascoltato svariate volte in loop: Cinque Terre