Mi ami? Ma quanto mi ami?
E mi pensi? Ma quanto mi pensi?
─spot televisivo SIP anni ’90
[column size=”2/3″ center=”yes”]Secondo una recente ricerca passiamo al telefono più tempo di quanto dormiamo: 8 ore e 41 minuti in compagnia dello smartphone vs. 8 ore e 21 minuti in compagnia del cuscino.
Mi piacerebbe sapere quanto tempo si trascorre al telefono con la propria dolce metà e, in proporzione, quante ore (e qui di sicuro quelle di sonno si riducono) a struggersi in caso di rottura sentimentale. E con struggimento non intendo solo il tempo dedicato ai litigi telefonici con il significant other ormai prossimo a diventare un ex, ma anche i minuti (secondi?) di estenuante attesa tra un messaggio e l’altro.
Perché se c’è una cosa che più di tutto, nell’era della comunicazione, pesa sul cuore degli innamorati è proprio l’attesa: attualmente è simboleggiata dalla doppia spunta di Whatsapp (prima grigia, poi magicamente blu) con tanto di indicazione messianica “sta scrivendo…”; qualche tempo addietro era lo squillino di risposta quando nessuno dei due aveva credito per i messaggini (vi prego, non ditemi che ero l’unica…), una sorta di conforto spearsiano: “give me a sign, ring me baby one more time”; un passo ancora indietro e arriviamo all’alzata della cornetta: un semplice gesto fisico che è manifestazione della presenza dell’amato, un atto talmente potente da porre fine all’attesa, decretare la volontà di scambio e dare il via alla conversazione, mielosa e civettuola se il rapporto è appena iniziato o sbocconcellata e travagliata se la relazione sta andando sfilacciandosi.
Ma ben prima di questo manifestarsi resta l’attesa, la crudele assenza di un messaggio che ci fa sognare, sperare e al contempo di-sperare. Ancor più in particolare, scrive Roland Barthes nei celeberrimi Frammenti di un discorso amoroso, l’angoscia del telefono è un vero e proprio sintomo dell’amore che arriva persino a produrre isterie, ossessioni e pachidermici immobilismi.
Immobilismi di cui sono preda due eccellenti nomi del panorama musicale contemporaneo, Adele e Drake, nelle due hit pop (con relativi video da milioni di visualizzazioni) di quest’anno, Hello e Hotline Bling. Entrambe le canzoni hanno infatti come tema una sofferenza sentimentale (una evocata; l’altra in fieri) messa in scena attraverso il telefono – tema molto comune nella pop music. I testi non fanno che confermare in maniera piuttosto vigorosa alcuni stereotipi tipicamente radicati nell’immaginario comune e nella letteratura, adattati qui in veste telefonica: la confessione fiume della donna in Hello e il lamento-j’accuse maschile in Hotline Bling.
Il testo di Hello si presenta come un’accurata trascrizione di vari tentativi di chiamata da parte di lei fino a sfociare nell’esplicito ritornello:
Hello from the other side
I must’ve called a thousand times
To tell you I’m sorry, for everything that I’ve done
But when I call you never seem to be home.
È la storia più vecchia del mondo: una relazione finita per colpa di uno dei due innamorati (in questo caso lei); il senso di colpa galoppante; il ritorno sul luogo del delitto – luogo simbolico, ovviamente, rappresentato dalla linea telefonica, unico modo di mettere in connessione i due. Ma il nostro lui, nello scenario di Hello, è assente: non risponde, non tira su la cornetta (o meglio: non vuole farlo) e la comunicazione non avviene mai. Ciò che invece accade è lo svolgimento di una confessione (intesa nel duplice senso: ammissione della propria colpa e dichiarazione dei propri intenti: mi scuso perché ho colpa ma anche perché mi voglio scusare) simile al messaggio interminabile di Message Personnel di Françoise Hardy (Dall’altra parte del telefono c’è la tua voce/e tutte le parole che non dirò mai) o alla pièce teatrale La voce umana di Jean Cocteau, un monologo di una donna, lasciata dal suo amante il giorno prima dopo una relazione di cinque anni, nel disperato tentativo di comunicare con lui telefonicamente. Il risultato è sofferto e desolante, nel vero segno dell’incomunicabilità all’interno del rapporto amoroso, e l’epilogo coincide con il lento soccombere della donna. Che in Hello si “limita” a scusarsi e ri-scurarsi per tutto il male causato, mentre ne La voce umana arriva a suicidarsi.
Ho il filo attorno al collo. Ho la tua voce attorno al mio collo… La tua voce attorno al mio collo…Bisognerebbe che ad un tratto il filo si spezzasse… […] Amore mio… mio caro amore… Sono forte…andiamo sbrigati. Va’ via taglia! taglia presto! Io ti amo, ti amo, ti amo…(Soffoca) ti amo… t’amo…
Nulla pare cambiato dal 1958, data di scrittura della pièce di Cocteau: Adèle, ridotta quasi ad un fantasma (doppia la valenza di otherside, inteso come altro lato del telefono ma anche un aldilà spazio-temporale), si addossa la colpa di una storia finita e ci rimane pure male se lui non risponde. Ma non importa, evidentemente a te non interessa più – l’interrogativo rimane misteriosamente aperto un po’ come il tu-tu-tu-tu monocorde del telefono.
Mettiamo pure da parte i toni mélo.
Hotline Bling mostra l’altra metà della mela, quella maschile. E’ lui a prendere la parola, adesso – e lo fa per parlare di lei, lei con la quale aveva, una volta, un appuntamento fisso al telefono – di notte. Un appuntamento il cui inizio era scandito dall’inconfondibile bling del cellulare:
You used to call me on my cell phone
Late night when you need my love
[…] And I know when that hotline bling
That can only mean one thing.
Sì, quel bling decretava un collegamento diretto (hotline) ma anche l’inizio di una conversazione degna del migliore call-center erotico (hot line). Ma lei ora non chiama più. E’ cambiata e fa la bella vita con le amiche, beve champagne e posta foto di sé più nuda che vestita. Dove è finito il mio zuccherino, dov’è la mia brava ragazza che se ne stava a casa e mi aspettava bella quieta?, pare chiedersi Drake. Anche qui, manco a farlo apposta, la storia si ripete a conferma dello stereotipo: la donna che si “è fatta una reputazione tutta da sola” – ha forse deciso di troncare i rapporti con lui?, o ha svestito i panni di angelo del focolare? o forse ha cercato la sua indipendenza? non ci è dato sapere – è irrimediabilmente vista come una donnaccia. E quindi Drake è “tagliato fuori, stressato, deluso”: il suo telefono piange perché orfano di quel bling salvifico ma spersonalizzato ed esclusivamente mediato dal device telefonico, quasi alla stregua di una Samantha del film Her di Spike Jonze.
Non stupiamoci: la stigmatizzazione della donna è ben radicata nell’immaginario della letteratura d’oltreoceano, è sufficiente citare il sempreverde Amore e Morte nel Romanzo Americano di Leslie Fiedler che puntualizza come la narrativa statunitense sia incapace di rappresentare un rapporto amoroso sano tra maschio e femmina. La donna, in effetti, viene dipinta come “mostro di virtù” (angelicata, asessuata) o “mostro di depravazione” (tentatrice, dark lady demoniaca) – nella canzone di Drake strigliata ben benino in un trattamento a metà strada tra la lezioncina dal tono patronizing e lo slut-shaming.
A piangere, pertanto, non è solo il telefono. E’ anche chi spera, in un futuro non troppo remoto, in nuovi modelli di sofferenza musicale e telefonica: una sofferenza che contempli una donna che manda liberamente a quel paese lui senza dover patire sensi di colpa e in un uomo che non faccia il derelitto se abbandonato da una lei. Ma forse è chiedere troppo agli autori di musica pop.
Ribaltando una battuta di Albert Camus, esigiamo l’impossibile. Eppure siamo realisti.[/column]