Lessi tempo fa un bell’articolo dove veniva raccontata l’affezione che abbiamo per la musica della nostra adolescenza o meglio gioventù. Ovviamente passatemi il termine gioventù. Diceva che siamo più sensibili e quindi reputiamo più belle le canzoni che hanno caratterizzato le nostre “prime volte” e i momenti più spensierati. Facendo una stima: 16-24 anni.
Diciamo sia così, almeno rientro nella descrizione (avevo 22 anni) e posso parlare di “Discovery” dei Daft Punk come del disco che per me ha una valenza sfaccettata: ispirazione, scoperta ma anche ricordi, esperienze e “prime time of your life”.
In prossimità dei suoi primi 15 anni mi è stato chiesto di scrivere qualcosa a riguardo in quanto vecchio nostalgico e persona nota per essere molto legata a quell’album. Sono indeciso se elogiare le qualità “tecniche” oppure scrivere delle emozioni che mi ha dato e dello strascico che si è portato dietro aprendomi definitivamente una visione su House e Disco che, ovviamente approfondita, non mi ha più lasciato andare via da questi generi.
A livello musicale il disco è riuscito a portare molti riferimenti “pop” degli anni 70 / 80 in un formato house “facile” con una classe ed una tecnica a mio parere ineguagliabili.
Hit come “I’m not in love” dei 10cc, “Rock it” di Herbie Hancock o “Get Down Saturday Night” di Oliver Cheatman ad esempio vengono citate e rivisitate con la lente contemporanea di una hit mondiale come “Music sounds better with you” ovvero il beta test della ballotta francese in vista appunto del loro secondo album.
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Il risultato appunto fu qualcosa di sublime. E profondamente lontano da quel caposaldo assoluto che fu il primo loro album (Homework) e motivo per il quale a molti non piacque o almeno spiazzò parecchio.
Anche perché all’inizio l’impatto stilistico e commerciale penso fu recepito più in ambienti da baracconi euro pop tipo gli Alcazar, con quelle hit da disco camicia cantate che giravano su loop disco faciloni o da esperimenti inglesi tipo Wiley che campionava “Aerodinamic”.
Solo attraversato l’oceano però, con la ridondanza di Alive a Coachella, pure gli Stati Uniti e quindi il vero music business ha iniziato a notare il duo e venne fuori un Grammy per “Harder, Better, Faster, Stronger” con 8 anni di ritardo e sampling e collaborazioni con Kanye West.
Un disco quindi con una coda molto lunga.
C’è una cosa in più che però mi permetterei di aggiungere, al netto di un video appena visto dove un ragazzino che si fa chiamare “Young Franco” (si vabbè) suona tutto agitato davanti ad una platea di australiani tronfi e agitati un mix tra “Drop the Pressure” di Mylo e appunto “One More Time” dei Daft Punk.
Credo che con questo album i due hanno messo la prima pietra, sinceramente spero in maniera involontaria, a tutto un nuovo fenomeno di percepire, ascoltare, criticare e fare la musica che da li in poi è seguita fino ad oggi.
Con l’aiuto delle tecnologie sia di produzione della musica che di riproduzione, parlando di djing, il loro disco ha dato moltissimo a tanti fenomeni poi esplosi dal 2001 in poi.
Un disco così “pop” e ballabile allo stesso punto, per mano di un duo così “weird” per un certo genere di pubblico giovane ha stravolto la concezione di una certa club music.
Ad esempio nonostante i DP non siano stati i primi musicisti a decidere di non esporsi e/o mascherarsi la loro influenza si è fatta notare poi a cascata su un sacco di producer più o meno famosi che han deciso da quel momento a celare il proprio volto nelle proprie performance. Spesso puntando molto sul loro presunto anonimato invece che sulla loro stessa musica. E più importante han dato l’impulso ad un sacco di bedroom producers di iniziare a provare a fare musica perché appunto una “One More Time”, moooooolto virtualmente, poteva essere fatta con una traccia disco e ableton live.
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La forma dj set/performance dal vivo è andata sempre più spettacolarizzandosi anche grazie all’impianto scenico/visivo creato dal duo con il loro live. In periodo Homework le loro esecuzioni erano crude ed efficaci, mettevano davanti la musica e non avevano nulla di scenografico, quello però che fu “la piramide” (con tutto il fioccare pure di grafiche che richiamavano triangoli e spazio, stelle e costellazioni) contribuì ad alzare l’asticella verso uno spettacolo tout court dove l’impianto scenico aveva un ruolo molto più importante relazionato alla musica stessa.
Quindi non mi meraviglio se siamo arrivati ai canotti, alle torte in faccia, a djs in livrea e comunque ad una esperienza più spettacolare del dj set dove ovviamente conta la musica ma non solo e quello che unisce chi vi partecipa è per forza pure uno spettacolo di laser e non solo quella che può essere definita una “attitudine” o meglio delle “vibes”.
A proposito, i Daft Punk finiscono ogni anno nella lista dei top dj anche se han smesso tipo nel 2004 di fare i dj, chi li vota? Si sta parlando del loro live? Le idee confuse non mancano nemmeno nella loro stessa fan base che immagino si sia spostata da quei raver rasati in felpa –che compaiono in quel footage di un loro live solo macchine (come piace tanto pure oggi) circa 1996– a dei qualsiasi spring breakers.
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È come se avessero deciso di conquistarsi il pubblico americano e quindi la definitiva consacrazione mondiale avvenuta con il loro ultimo disco rifacendo in maniera facile e piaciona (d’altro canto non considero l’audience americano dance molto raffinato) i loro primi due album, due pietre miliari della musica house.
È un peccato, parlo in maniera molto personale, vedere che le loro produzioni a seguire siano state un po’ aride a livello di creatività: “il ghost writer dei Daft Punk è morto dopo Discovery” disse ironicamente il mio amico Viky anni fa.
Ed è questo un buon motivo per riascoltarsi questo Masterpiece e celebrare i suoi 15 anni, dai che ancora 12 mesi e può prendere pure la patente di guida.
Negli States ovviamente.