Ritorna la tribù nomade dei Goat con un nuovo album, il quarto -se si include la testimonianza dal vivo di “Live Ballroom Ritual”- dopo i sorprendenti “World Music” e “Commune”. Una band questa che si è costruita una reputazione grazie tanto alle febbrili, viscerali esibizioni live che l’hanno portata a calcare i palchi dei principali festival mondiali quanto al mistero che circonda la loro origine, i propri membri ed all’ipnotica, ancestrale miscela sonora che creano.
Un mistero che continua in questo “Requiem” e che se possibile si infittisce. L’identità dei componenti della band resta celata dalle maschere che sono ormai diventate il loro segno distintivo, quasi si trattasse di una versione tribale delle personalità fittizie adottate dai Kiss, mentre il sound che tanto ha sorpreso ed eccitato si arricchisce di nuove influenze e mostra come illimitate siano le possibilità che il collettivo ha davanti ed inediti i loro audaci accostamenti stilistici. Se con il loro precedente long player si erano assestati su un hard rock psichedelico, sciamanico, pieno di un groove in forte debito con le coloriture ritmiche del funk e dell’afrobeat, questo nuovo lavoro mostra gli svedesi esplorare le possibilità della strumentazione acustica in una versione più pastorale della loro visione utopica della musica e del mondo -per coincidenza non dissimile all’apertura verso il folk e le sonorità acustiche operata dai Led Zeppelin nel loro, guarda caso, terzo album.
Dal punto di vista chitarristico la formazione -il cui nome a quanto pare sarebbe il bizzarro acronimo di Gathering Of Ancient Tribes, titolo di una delle canzoni contenute proprio in “Commune”- dimostra di aver interiorizzato definitivamente la lezione dei grandi maestri del blues del Mali, influenza già comunque ben presente in vecchi brani come Talk To God. Goodbye mette in bella mostra un virtuosismo sugli strumenti a corde che sembra arrivare direttamente dalla scuola di un Toumani Diabate o un Ali Farka Toure. Tale è la vastità e l’inclusività della visione musicale dei Goat che non stupisce nemmeno l’attacco a suon di flauto andino dell’ingenuamente anthemica -ma estremamente catchy- Union of Sun and Moon, il beat house eseguito in versione acustica, ritualistica e primordiale in Temple Rythms o il rock-blues tribale di Goatband, una sorta di versione super-lisergica del riff di Gimme Shelter dei Rolling Stones protratta a ruota libera per oltre sette minuti.
“Requiem” è un disco che paradossalmente, nel suo essere leggermente atipico, può fungere da perfetto punto di partenza per quanti ancora non hanno avuto la fortuna di scoprire questa straordinaria band, da qui il viaggio verso il centro del vortice del loro sound sarà meno arduo. Per i fans di vecchia data, al contrario, l’introduzione di nuove dinamiche potrà dare l’impressione di un passo falso. Alle orecchie di chi scrive questa nuova direzione musicale risulta tanto elettrizzante quanto quella delle prove discografiche che l’hanno preceduta, grazie proprio all’aggiunta di nuovi strati e livelli d’ascolto. In ogni caso, quest’album resta uno dei più sorprendenti e vitali dell’intera annata discografica che sta per terminare. Arrivato giusto in tempo tra l’altro. In un 2016 in cui la parola d’ordine in musica è stata “distopia”, una salutare dose di utopica positività ci voleva proprio.