Il successo che Bonobo ha ottenuto nel corso degli ultimi anni in Italia -e chiaramente non solo qui- è uno di quegli strani fenomeni che, quando ci pensi, ti rimettono un po’ in pace con l’esistenza. La sua musica, per quanto immediata, non ha nulla di facilotto e scontato. Sia ben chiaro, non sfida o mette a dura prova le orecchie dell’ascoltatore con soluzioni astruse e sonorità abrasive, ma non ha nemmeno la ruffianeria e la mediocrità che, a quanto pare, sono prerequisito fondamentale per raggiungere una fetta consistente di pubblico di questi tempi -o forse da sempre, chi lo sa. Faciloneria che fin dai suoi umili esordi su Tru Thoughts -come raccontatoci dal fondatore della label qualche settimana fa– e passando per i best sellers “Black Sands” e “The North Borders”, il britannico Simon Green ha sempre saggiamente evitato. A questa il produttore ha contrapposto una paziente, artigianale opera di rifinitura di un suono che col tempo è diventato riconoscibile già dalle prime battute. Tutto questo ci porta a parlare del suo nuovo, attesissimo “Migration”, in uscita domani su Ninja Tune -c’è davvero bisogno di dirlo?– e di quello che Bonobo ha voluto raccontarci al suo interno.
In un incontro tra personale ed universale, il disco affronta l’attuale e scottante tema della “migrazione” in maniera indiretta ed obliqua, ben espressa dalle parole dello stesso produttore che ha riassunto così il suo punto di vista:
“My own personal idea of identity has played into this record and the theme of migration. Is home where you are or where you are from, when you move around? It’s interesting how one person will take an influence from one part of the world and move with that influence and affect another part of the world. Over time, the identities of places evolve.”
Chiaramente, nelle sue canzoni Bonobo non pretende di entrare nelle implicazioni più problematiche che i fenomeni migratori portano con sé, ma si limita a tratteggiarne con delicatezza aspetti ed effetti più intimamente positivi. Il brano No Reason, scritto in collaborazione con l’australiano Nick Murphy -più conosciuto come Chet Faker– oltre ad essere ben rappresentativo dell’intero album, ne esemplifica bene i sentimenti:
“It’s beautiful, and even though
I told you so, you know
We’d face survival, we’re leaving lights on
We’ll move or go on somehow”
Ed ancora:
“And we’ve got no rhyme or no reason now
We’ve got the time of our lives now”
Musicalmente Green continua a raffinare l’arte delle sue melodie circolari, dell’uso di calde sonorità tra l’elettronico e l’acustico messe al servizio di vellutati e sofisticati tappeti ritmici ed impreziosite da discreti tocchi etnici, in questo caso resi ancora più preminenti ed espliciti come nel singolo Kerala –canzone costruita intorno ad un sample della diva dell’RnB Brandy– o in Bambro Koyo Ganda, innesto tra elettronica ed ipnotico desert-blues reso possibile grazie alla collaborazione con i nord-africani Innov Gnawa. Nel suo insieme il disco risulta come la logica prosecuzione dei temi e moods che hanno reso i suoi predecessori così popolari ed è esattamente quello che i numerosi fans di Bonobo stanno certamente aspettando. Dopo un anno pieno di scossoni come quello appena passato, questa prima grossa uscita targata 2017 segna un ritorno -se non altro in musica- a qualcosa di rassicurante e ben augurante.