Un altro mese (ehm due), un altro episodio di CHITARRONI, un appuntamento oramai necessario quanto la presenza di Silvio Berlusconi in carcere.
Partiamo subito a bomba con quello che è già il mio disco dell’anno. Ma più che dell’anno proprio uno dei dischi della vita (forse sto esagerando). Sì mi rendo conto della pericolosità di questa affermazione, ma se è vero che negli ultimi anni l’emo mi sta assorbendo in tutto e per tutto, posso confermarvi che questo disco è un instant classic del genere; vi spiegherò meglio perché subito dopo la pubblicità.
I The Hotelier sono una band di Worcester MA, una cittadina a circa un’oretta da Boston, che ha all’attivo due dischi e due nomi (prima infatti si chiamavano The Hotel Years). Avevo distrattamente ascoltato il loro debutto, ma appena ho messo su Home, Like No Place Is There ho subito percepito quella particolare sensazione che provo quando mi scontro con un disco che diventerà una mia piccola pietra miliare. Innanzitutto il disco funziona a vari livelli. Lo si può approcciare in maniera leggera, senza star troppo a dare conto dei testi (come ho fatto io la prima volta) ed è un disco che ti prende bene per la sua carica anthemica e per i ritornelli pop-punk incredibilmente catchy corredati dalla gran voce del bassista/cantante Christian Holden. La sua è una delle voci più versatili che ho sentito da qualche anno a questa parte, una specie di piccolo Chino MorEMO. Infatti, l’estensione vocale e la non eccessiva raffinatezza nell’esecuzione, gli permettono di variare da ritornelli pop-punk a sfuriate screamo con una facilità disarmante. La versatilità della voce di Chris (lo chiamo così perché a sua insaputa è già diventato un mio amicone) è in tutto e per tutto riflessa anche nel compartimento musicale, dove il lavoro armonico e ritmico cambia toni e intenzioni senza la minima forzatura. Il disco è però tutto fuorché il classico disco emo superficiale che parla di nostalgia e “che bello che era prima, ora fa tutto schifo!”.
Sin dalla prima traccia (che si intitola fantasiosamente An introduction to the album e che mi ha ricordato un sacco l’intro di Hybris dei FASK) ci rendiamo conto di come i testi siano parte fondamentale del disco, sostanzialmente perché Chris canta SEMPRE. Non c’è praticamente nessuna parte esclusivamente strumentale in tutto il disco e questo aumenta il fattore orecchiabilità-pop delle canzoni. I testi sono centrali e, se si analizzano, si scopre come i temi attorno a cui ruotano siano tutt’altro che pop. Si parla di persone che non ci sono più e che se ne sono andate a causa di problemi tenuti nascosti e poco visibili, di rimpianti per non averli capiti, di perdite cui il narratore sembra in qualche modo voler affrontare insieme al disco. Insomma, non esistesse l’elemento testuale sarebbe un album di cui molte parti (penso ad esempio ad In Framing, dove per almeno metà traccia pare di sentire uno dei pezzi più tristoni dei Blink-182) potrebbero passare tranquillamente in qualche programma radio mainstream tipo, chessò, Tropical Pizza di quel pelatone di Nikki. Le parole però, appunto, ci sono e sono anche ben scritte. Non si tratta di un racconto descrittivo di qualcosa che è successo, piuttosto sono frasi che evocano sensazioni e che lasciano la possibilità di scoprirle e conoscerle meglio ascolto dopo ascolto.
L’emo che preferisco è quello che racconta di situazioni comuni e ordinarie verso cui tutti noi possiamo empatizzare (proprio perché ecco, sono cose che succedono a tutti ogni giorno su cui magari non ci soffermiamo troppo proprio perché pensi—”solo a me succedono ste robe eh”), ma che in realtà alludono a pensieri più alti, di carattere sociale. Rendere comprensibili determinate posizioni, concetti e idee tramite figure che possiamo capire perché ci riguardando da vicino. In questo i The Hotelier si dimostrano maestri, possessori di una maturità del tutto inaspettata, contando che stiamo appunto parlando del loro secondo LP. L’esempio più palese è quello che accade in Housebroken, dove si usa la metafora di un cane legato ad una catena e maltrattato dal padrone, per parlare in realtà di come la natura umana preferisca comunque vivere una situazione di sicurezza, pur se violenta e limitante, piuttosto che accettare la libertà, che però porterebbe con se l’insicurezza di non avere più uno scopo dichiarato e palese. Questo dualismo di orecchiabilità-complessità(di contenuti) funziona perfettamente, proprio perché il reale peso del disco lo si percepisce alla fine e non durante.
Ascoltare Home, Like No Place Is There è un po’ come camminare in un bosco in un bel pomeriggio di primavera e scoprire, solo a fine giornata, che ti ritrovi un sacco di piccoli taglietti sulle gambe che iniziano a bruciare e dici—“E questi? Come diavolo me li son fatti?”
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I Gazebo Penguins sono un altro gruppo che di sicuro riesce ad evocare scenari profondi con frasi semplici e dirette. Beh, nella loro ultima uscita SANTAMASSENZA, forse raggiungiamo uno dei punti più alti in questo senso. Nel primo pezzo Riposa in piedi veniamo subito accolti da una sentenza—“Cambiano i fiori sulla lapide, ma non cambia che sto male”—che ci colpisce subito come una mazzata sul cuore. In questo caso però abbiamo un vantaggio, un lusso: nel vinile troviamo un racconto scritto proprio da Capra (devo davvero spiegarvi chi è Capra?) che spiega il senso di quella frase e di ciò che sta dietro al titolo della canzone. Capire il vero significato delle parole di un cantante, di uno scrittore, che stimiamo non succede sempre (e forse è giusto così), ma quando capita, succede che ti avvicini un passo di più alla persona che sta dietro al personaggio. È una bella cosa. SANTAMASSENZA è però uno split, questo vuol dire che vede la presenza di un altro ospito e questo ospite è Johnny Mox. Per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un predicatore blues/rock che opera in Trentino con l’aiuto di loop machines, batteria e un sacco di magia oscura. All’interno del disco troverete anche un suo racconto. Esce tutto il 10 Maggio, primo compleanno di RAUDO, in coproduzione tra To Lose La Track e Woodworm. Insomma, uno SPLITTONE PAURA capitolo II.
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I Frameworks, sono una band di Gainesville FL e sono una recente acquisizione di Topshelf Records. Come sappiamo, è molto difficile che Topshelf sbagli qualcosa e infatti Loom si presenta come una delle migliori uscite pese dell’anno. Ciò che risalta di più è la varietà di generi e accenti toccati dal quintetto americano, non si tratta infatti di un semplice disco post-hardcore. Sarà che la produzione è stata affidata a Jack Shirley (ovvero colui che ha curato il successone dei Deafheaven Sunbather, ma anche il chitarrista di una delle band più fighe (già defunta) degli ultimi anni ovvero i Comadre), ma ogni canzone di Loom ha una texture ruvida e al contempo brillante, mai scontata, che mette in risalto il lavoro armonico delle chitarre. Il culmine si raggiunge in Mutual Collision dove, ditemi se sbaglio, i primi secondi sembrano un mix di Mastodon e Converge, mentre da metà in poi, dopo un interludio melodico, il pezzo si arricchisce in un crescendo iper-emotivo di chitarre in shredding che ti fa venir voglia di distruggere tipo qualsiasi cosa.
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Torniamo in Italia per parlare dei Flowers and Paraffin, un quintetto avellinese che ha appena cagato un EP dal titolo Caduta in uscita per La Fine. Devo dire che mi hanno impressionato nonostante la produzione sia non proprio perfetta (è stato registrato tutto in presa diretta). Il gruppo è acerbo ma non troppo e nel panorama del post-punk italiano diciamo che ha assolutamente ragione di esistere, soprattuto per l’attitudine scanzonata che ricorda un po’ i compagni di etichetta Vacanza e gli HAVAH e per l’uso di un synth che rende tutto ancora meno scontato. In Trauma a me è sembrato di sentire a tratti i Radiohead di Electioneering (mi piace esagerare).
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Amici, questa è una bomba. Il disco-sorpresa degli ultimi mesi è senza dubbio still dei nouns un gruppo di Conway, una cittadina dell’Arkansas nel cui liceo ha giocato pure Scottie Pippen (non ce ne voglia Shaq). Questo disco contiene talmente tante cose che è davvero difficile cercare di inserirlo in un unico compartimento. Per farvi capire, l’intro sembra una versione light di un pezzo dei Fuck Buttons, mentre il secondo pezzo attacca con blast beats e chitarre shoegaze, per poi interrompersi bruscamente con cori di voci pop-punk prese bene a cui si aggiunge UN CAZZO DI SYNTH 8-BIT rubato direttamente dall’ultimo disco dei Horse the Band (un altro gruppo di folli). Poi ancora momenti corali e un improvviso stop con basso scuro e iper-distorto che sembra uscire da un pezzo dei Have A Nice Life. Diciamo che la base dei nouns è sicuramente post-punk, che però viene spesso stravolta da ritornelli pop, blast beats, cori emo, urla screamo, distorsioni post-hardcore, arpeggini 8 bit, breakdown math che sfociano in ritmiche decisamente più metal che punk, come accade in Little Slugger un pezzo dove succede tipo TUTTO. Il rischio di permettersi così tanta creatività è quello di risultare poco coesi, ma i nouns riescono incredibilmente a tenere le redini di quasi tutto quello che fanno uscire dai loro arti e confezionano un album che verrà incredibilmente sottovalutato da tutti, tranne da voi che state leggendo questo pezzo e che inizierete a spammare questo gruppo, il quale grazie a voi non verrà più sottovalutato.
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Siamo di nuovo in casa Topshelf per parlare dei Donovan Wolfington e del loro nuovo EP Scary Stories You Tell In The Dark. I DW vengono da New Orleans e hanno un tiro pazzesco. Mi sono subito piaciuti per quattro motivi: 1. Hanno un tiro pazzesco 2. Assomigliano un bel po’ ai Title Fight, che sono uno dei miei gruppi preferiti 3. Usano pure loro un synth, nella misura giusta, al momento giusto. 4. Nella formazione c’è una donna che suona e canta. Sono curiosissimo di vedere cosa faranno nel loro prossimo LP, ma per ora l’EP è un formato che sfruttano nel migliore dei modi. Ve ne innamorerete, parola di lupetto.
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Quando uscì Of All Things I Will Soon Grow Tired dei Joyce Manor pensai che era da molto tempo che non sentivo un disco così breve con così tanta personalità. La stessa cosa è accaduta con Busch Hymns dei Posture & Grizzly, band di Willimantic, Connecticut uscita sotto Broken World Media. Il loro disco è un falso LP che dura 17 minuti, ha 8 canzoni ed è veloce, diretto, grezzo e conciso. Questo è esattamente il modo in cui bisogna fare un disco punk-rock nel 2014.
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Indovina un po’ chi sono finalmente tornati in vita? I Do Nascimiento! Tipo uno dei miei gruppi italiani preferiti degli ultimi anni! Tipo la band emo più genuina che esista al mondo! Allora, non ci sono ancora moltissimi dettagli (quella qui a sinistra infatti NON è la copertina, ma solo un #selfie #vitadapunk #tuttisobri), ma quest’estate pare proprio che uscirà il loro primo vero LP che raccoglierà tutto quello che hanno fatto fino ad ora (l’EP di debutto più lo Splittone Paura con Verme (RIP) e Gazebo Penguins) più qualche inedito. Dalla regia mi dicono or ora free download da giugno, a luglio CD e vinile in uscita per To Lose La Track e Flying Kids. La cosa più bella è che qui sotto potete beccarvi il lyric video di Vecchio, ovvero il primo degli inediti. Pazzesco!
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The Please & Thank Yous è il nome abbastanza assurdo di una band di Chicago. Mi è rimasto in mente da quando mi mandarono il disco precedente per una recensione, con la descrizione tutta scritta in mezzo italiano maccheronico e perché il batterista è lo stesso dei Dowsing. Non lo recensii, non perché fosse un brutto disco, però non era nient’altro che un disco punk dritto-per-dritto. In questo self titled invece ho notato una transizione più emo, soprattutto nel cantato. Altro aspetto decisamente migliorato è il reparto ritmico, con la batteria più varia e sciolta e il basso che crea interessanti linee che l’orecchio si trova spesso a seguire con attenzione. Insomma, se ti piacciono i Dowsing apprezzerai anche i TPATY.
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I Bag of Bones sono una piccola chicca (solo 400 e qualcosa fan su Facebook, che è chiaramente il posto che determina l’esistenza o meno di una cosa) che ho trovato letteralmente a cazzo su bandcamp. Sono una chicca perché la prima cosa che viene in mente ascoltando Third Dimension è una versione slow-core/post-rock degli American Football (che per inciso tornano in tour, SÌ AVETE CAPITO BENE). Sicuramente meno tecnici e twinkle dei Maestri del genere, i Bag of Bones riescono lo stesso a catturare l’attenzione grazie alle atmosfere calde, all’uso sapiente dei fiati che non vengono usati solamente come accessori, quanto più come livelli che vanno ad accumularsi al suono soffice e lento di tutto il disco. Il disco non è privo di difetti, ma nella maggior parte dei casi dimostra senza dubbio di essere un disco iper-sottovalutato di una band iper-sconosciuta che ora però, grazie a CHITARRONI e grazie a voi vedremo a breve in tour mondiale a supporto di Avril Lavigne.