“I’m home, with moonlight on the river, saying my goodbyes”
Mercoledì, esterno giorno.
Sono in piscina senza cuffia, l’acqua mi arriva alle spalle se sto in equilibrio sulle punte, tengo la testa piegata di lato mezza dentro e mezza fuori. La linea di confine tra l’asciutto e il bagnato mi divide la faccia perfettamente a metà: con una narice respiro, con l’altra faccio le bolle. I capelli si muovono lentissimi fregandosene del tempo e della gravità, i capezzoli spingono il costume senza il desiderio di scappare da qualche parte. Il sole si riflette sul pelo dell’acqua e fa brillare tutto, mi costringe a chiudere anche l’occhio che potevo tenere aperto lontano dal bruciore del cloro. L’unico dei cinque sensi che mi è rimasto è l’udito, anche se scomposto: l’orecchio sinistro sente il rumore dentro e quello sinistro il rumore fuori. Non cambia con la violenza del respiro necessario ogni tre bracciate di stile libero, ma semplicemente posso sentire due cose contemporaneamente: l’acqua e l’aria. L’aria ha un suono nitidissimo e tutto si disperde, l’acqua ci protegge ovattando e nascondendo tutto.
Questo è “The Old Dog”: sono le vibrazioni che si perdono tra due molecole di idrogeno e una di ossigeno, è la luce accecante fuori che ci costringe a rifugiarci nel buio dietro le palpebre chiuse. È un disco un po’ diverso dagli altri di Mac DeMarco, più introspettivo e intimo. È una più complessa esplorazione della vita, con tutte le vicissitudini e i cambiamenti che comporta, cantata però sempre tra le note gentili di chitarra che conosciamo bene e con cui abbiamo imparato ad amarlo; quel jizz jazz – anche se un po’ più jazz e un po’ meno jizz – che fa da contrasto alle parole, e che ci fa sempre sentire come se fosse una mattina pigra o un pomeriggio di sole caldo e vento fresco. Partiamo dall’inizio.
Il brano che apre il disco è This Old Dog, un dialogo con se stesso allo specchio in cui però rivede il padre o qualcuno che gli sembra di riconoscere ma che sicuramente non è lui: “Look in the mirror, who do you see? / Someone familiar, but surely not me / For he can’t be me / Look how old and cold and tired And lonely he’s become / Not until you see / There’s a price tag hanging off of having all that fun”. A fare da sottofondo a queste parole fortissime, a cui non siamo ancora abituati – insomma, è sempre Mac DeMarco! – ci sono tre corde della chitarra che vibrano in un folky twang: l’assestamento che serve alla corda per ritornare tesa (come dopo aver scagliato una freccia) è lo stesso che serve anche a noi per non rimanere sconvolti da quel sentimento piuttosto comune che a quasi trent’anni ci fa guardare allo specchio e pensare “oh cazzo, sono mio padre”.
Le parole,
un orecchio che sente tutto.
Le chitarre,
un orecchio sott’acqua.
Abbandoniamo per un attimo il ricordo del Mac DeMarco a cui siamo abituati, ad esempio quello nudo che cantava Beautiful Day degli U2 con una bacchetta infilata in mezzo alle chiappe, possiamo dire che ora si guarda dentro da un’altra prospettiva. L’album è carico di malinconia e di insicurezze, di cose dette con la lingua tra i denti ed altre urlate e lasciate portar via dal vento. Mac è sempre stato accessibile, vicino. Nel 2015 – nell’album “Another One” – aveva condiviso il suo indirizzo con i fans: “Stop on By, I’ll make you a cup of coffee. See you later” ha cantato in On The Water, stavolta oltre al suo salotto condivide con noi anche un pezzettino di cuore.
Questa vulnerabilità la troviamo una canzone dopo l’altra: tra le righe di This Old Dog (“Sometimes my love may be put on hold/Sometimes my heart may seem awful cold”), nella sorta di meditazione sulla morte che troviamo in Moonlight on the River (“I’m home, with moonlight on the river, saying my goodbyes / I’m home, there’s moonlight on the river, everybody dies”) e anche in On the Level, che suona come se la sirena di un’ambulanza ci addormentasse in un trip di oppiacei. Ci sono poi brani in cui ritroviamo il buon vecchio Mac e altri ancora che vorremmo ballare abbracciati sul pontile con la persona che ci piace e che non ci fa mai domande.
Watching Him Fade Away, l’ultima traccia del disco, ci fa sentire di nuovo il cuore appeso al collo: la voce tenera di Mac DeMarco sulle note semplici di un organo racconta del padre che per lui non c’è mai stato davvero e del suo doloroso passato (“The thought of him no longer being around / Well sure it would be sad but not really different”) e ci rompe il cuore in mille pezzi come un vaso di cristallo caduto dalla credenza.
Questo disco è decisamente una lettera d’amore alla sua famiglia, con il bordo leccato, l’indirizzo in corsivo e il francobollo bello che ti danno certi giorni in posta quando ci sono le ricorrenze. Una lettera infilata nella cassetta senza timbro postale e viaggi interregionali, con il sorriso leggero di chi la trova in mezzo alle bollette.
Si alza un po’ il vento e si increspano onde piccolissime che mi bagnano le ciglia e le rendono pesanti come mattoni. L’acqua nelle fughe tra le piastrelle azzurre non sta in realtà scappando da nessuna parte. Forse ho freddo, forse è solo che ti vorrei qui seduto sul bordo della piscina e appoggiare le braccia alle tue gambe piegate e bagnarti la pelle come se fossi una cartina geografica e le gocce d’acqua che scendono fossero i fiumi.
Mezza faccia, mezzo collo e una sola spalla sono ricoperti di rughine piccole che sono il segnale d’allarme che è ora di uscire da qui, sull’altra metà sono spuntate le lentiggini. Forse è passata mezz’ora, forse un’ora. Guardo la pelle raggrinzita e mi sento vecchissima; mi viene da pensare che in questo preciso momento ho la stessa età di Mac DeMarco e di tutti gli altri ventisettenni del mondo, e che se fossimo dei cani avremmo tutti 189 anni: saremmo decisamente dei cani vecchissimi, The Old Dog(s). Sorrido, mi arrotolo un asciugamano sulla testa e lascio le impronte di piedi bagnati per tutto il vialetto.